Polpette avvelenate
Se nei film americani i detective stressati bevono caffè, whiskey e mangiano ciambelle glassate, in ambito letterario il cibo spesso ha un ruolo diverso, ma mai marginale. Per quanto riguarda chi indaga e deve venire a capo di delitti misteriosi, la situazione cambia a seconda dell’autore. Se si tratta del commissario Montalbano, oltre ad essere un amante degli arancini, preferisce la cucina di Adelina e mangiare in casa; Maigret, invece, è attento alla stagionalità del prodotto. Se poi pensiamo a Sherlock Holmes, lui aveva un pessimo rapporto con il cibo, che non ha niente a che vedere con il palato raffinato e mai soddisfatto di Nero Wolfe e Pepe Carvalho. L’investigatore di Baker Street evitava accuratamente di spendere le sue energie per la digestione, arrivando a rimanere a lungo senza mangiare per concentrarsi solo sui suoi casi.
Il cibo avvelenato si può trovare anche nella trama di una fiaba, Biancaneve detta legge con la sua mela. Lei, a differenza di molti altri personaggi, ha avuto la sua seconda possibilità. Solitamente non basta il bacio del principe per rimettersi in sesto, soprattutto se il principe si chiama Hannibal Lecter.
È vero che il cibo fa sempre gola, e per questo il delitto si può letteralmente servire su un piatto d’argento, nessuno sarebbe capace di resistere a un buon bicchiere di vino o a un piatto invitante, magari un dolce. Nel corso della storia si sono alternati tantissimi omicidi a base di cibo avvelenato, ipotesi tenuta in considerazione anche per la morte di Napoleone Bonaparte, Beethoven, Mozart o Pablo Neruda. Tra gli alimenti più velenosi c’è il Fugu, più comunemente noto come pesce palla, che in Giappone è stato capace di mietere molte vittime. Alcuni dei suoi organi, come il fegato e l’intestino, contengono la tetrodossina, che causa una paralisi degli impulsi nervosi. L’attore Bandō Mitsugorō amava gli strani effetti provocati dall’ingerimento del fegato di fugu, così nel 1975 decise di concedersi una cena abbondante, che segnò però la fine dei suoi giorni.
Non solo per cliché ma anche nella realtà le morti per avvelenamento sono spesso opera di donne che puntano dritte all’eredità dei mariti. L’arsenico rimane uno dei veleni più usati nella storia, nel diciannovesimo secolo le donne ne fecero largo uso perché non avevano modo di divorziare e non solo per interessi materiali. Anche se nell’antica Roma esisteva già la figura di Hieronyma Spara, che aveva creato un’organizzazione segreta in cui istruiva le giovani donne su come avvelenare i mariti per diventare vedove arricchite. All’epoca esisteva un’altra figura molto importante, soprattutto per la borghesia, quella di Lucusta. Arrivata dalla Gallia a Roma, è considerata la prima avvelenatrice seriale della storia, era richiesta per le sue conoscenze e veniva contattata dai ricchi per sbarazzarsi di parenti o amanti scomodi. Fu ingaggiata da Agrippa Minore per far fuori l’Imperatore Claudio, ucciso con funghi velenosi. A lui succedette Nerone, che mise al lavoro le sue armate per imparare a distinguere i funghi commestibili da quelli velenosi, ma che tenne sempre sotto la sua scorta Lucusta. Quest’ultima dalla sua botteghina sul colle Palatino vendeva rimedi ed elisir, pare che abbia preparato lei stessa la pozione letale con la quale Nerone si tolse la vita.
Il cliché della morte causata da cibo avvelenato è molto amato anche in ambito cinematografico: come Quentin Tarantino, anche Alfred Hitchcock era un grande estimatore del cibo, che non inseriva mai casualmente nelle sue opere. Ci sono drink avvelenati in “Notorius“, ma in ogni opera del grande regista di “Psycho” in qualche modo il cibo viene ricollegato all’omicidio. Anche Francis Ford Coppola riporta sul grande schermo questo tipo di stratagemma, ne “Il padrino – Parte III” Connie Corleone serve dei cannoli avvelenati a Don Altobello. La morte più dolce.
-
Previous Post
« Aperitivo: da Ippocrate alla Milano da bere