Anatomia di un piatto
C’è un modo preciso per disporre i piatti sulla tavola, gli esperti di bon ton lo sanno già molto bene. I bianchi vanno per la maggiore: classici, puliti, eleganti e sempre adeguati, se li usi sai che non puoi sbagliare. Il piatto piano, che va bene per tutte le pietanze che non sono liquide, si alterna al piatto fondo (o fondina), che invece è concavo ed è perfetto per i brodi e le zuppe e che a volte è una scodella. C’è un piatto dalla forma allungata e uno spazietto per il burro, che è fatto apposta per gli asparagi e c’è un piatto fatto apposta per mangiare le escargot, con le fossette in cui mettere le lumache. C’è la mezzaluna per le insalate, da mettere accanto al secondo, che generalmente si trova su un piatto piano. Il piattino per il pane è piccolo e piano e deve stare sempre in alto a sinistra. Se invece ha un incavo al centro, non è di certo un piattino per il pane ma va bene per metterci sopra una tazza. Chi vuole apparecchiare la tavola in maniera molto elegante può usare un segnaposto, in modo da indicare la posizione del coperto. Coi segnaposto ci si può sbizzarrire: ci sono quelli in argento, in acciaio e anche in vimini. C’è il porta torta, il piatto di servizio, che è quello in cui si mettono tutte le pietanze da portare in tavola, quello per la frutta e il dolce. C’è il piatto girevole “Lazy Susan”, che prende il nome da qualcuno molto pigro. Ci sono poi i patina, che sono quei piatti destinati ai riti religiosi, i piatti sofisticati per i più ricchi, perfino quelli in oro, da esporre con orgoglio. Se dovessimo guardare a un piatto da una prospettiva anatomica, ha una composizione molto semplice e definita: la parte centrale si chiama girello, oppure ombelico, mentre quella esterna è la falda – o fascia.
Dalla dinastia dei Ming alla pietra filosofale
Il piatto in una versione primordiale si utilizzava già nelle civiltà più antiche, come i romani, i greci e gli etruschi, nel Medioevo si utilizzavano piatti di legno. Dentro ogni piatto c’è una tradizione, che racconta la storia di una civiltà. Generalmente le “indagini” sui piatti e tutto quello che si portano dentro vengono affidate agli antropologi alimentari, che vanno alla ricerca delle origini di quei piatti e dei loro metodi di cottura. Da questi si possono dedurre moltissime cose, incluse le conoscenze scientifiche detenute da chi quei piatti li ha creati, sperimentando e arrivando a risultati magari inaspettati. Molti piatti fanno parte di rituali specifici, altri definiscono lo status sociale: ogni cultura ha le sue preferenze e i suoi tabù, che spesso dipendono da motivi di natura religiosa. Sono gli stessi motivi che, insieme ad altri fattori, influenzano le preferenze di un popolo, orientandole verso un piatto piuttosto che un altro.
La porcellana è una ceramica molto particolare – ed oggi molto diffusa – prodotta dai cinesi fin dai tempi della dinastia Tang (618-907). Già prima ne esisteva una versione più grezza e ovviamente una migliore è arrivata successivamente, al punto da diventare celebre in ogni angolo del mondo. Il periodo della nascita della porcellana coincideva, in Cina, con quello delle “Cinque dinastie e dieci regni”, un’epoca fortemente instabile dal punto di vista politico, con tentativi di espansione territoriale, guerre, ma anche un grande fermento artistico, che andava di pari passo con una forte diffusione del buddismo. La porcellana rimase una prerogativa cinese, racchiusa entro i suoi (vasti) confini, almeno fino all’arrivo di Marco Polo, che non arrivò prima della fine del ‘200. L’esploratore veneziano era rimasto colpito da quelle che lui stesso descriveva come le più belle scodelle di porcellana del mondo (Il Milione). Con i viaggi degli europei verso le rotte orientali iniziò un florido commercio che durò a lungo, poiché ci volle molto tempo prima che in Occidente venisse scoperto il segreto della produzione cinese. Alla corte dei Medici a Firenze ci erano arrivati vicini nella seconda metà del ‘500, quando producevano la Porcellana Medicea, ma era ancora ben lontana dalle grandi opere cinesi – e in più era a pasta morbida. Quella a pasta dura fu “scoperta” dall’alchimista tedesco Johann Friedrich Bӧttger, che rese celebre la porcellana di Messen. A lungo la Germania fu l’unico paese a produrre la porcellana dura in Europa, mentre gli alchimisti di tutte le corti si affrettavano a carpirne il segreto. Ricollegandoci idealmente a Marco Polo, in Italia la produzione di porcellana dura ebbe inizio proprio a Venezia nel 1720 e nel 1735 iniziò la produzione fiorentina con la Manifattura di Doccia del marchese Carlo Ginori, arrivata tra alti e bassi ai nostri giorni e conosciuta in tutto il mondo.
La pasta della porcellana viene cotta ad alte temperature (tra i 1300 e i 1500°) e cambia consistenza in base alla presenza di caolino, feldspato e quarzo, che per i cinesi formavano lo “scheletro” e la “carne” della porcellana. Questa particolare ceramica può essere dura (o caolinica), tenera (o vetrosa), calcarea o magnesiaca. “Porcellana” era il nome dato alla concha venerea, una conchiglia dei mari orientali che aveva lo stesso colore della ceramica cinese. Il nome fu di derivazione portoghese, poiché a lungo si credette che le conchiglie venissero usate come scodelle, anche per via di un’errata interpretazione delle parole di Marco Polo. Fu con la dinastia dei Ming che la porcellana in Cina raggiunse la massima diffusione e l’apice della produzione con una varietà di colori più ampia e una maggiore ricercatezza espressiva. Il Giappone, come il resto del mondo, amava molto il prodotto, diventato poi gettonatissimo per le cerimonie del tè. In Europa non era solito imbattersi in merce contraffatta, gli alchimisti si scervellavano senza trovare soluzione e nel frattempo riproducevano formule alternative, qualcuno se ne approfittava.
Dalla scoperta tedesca, col passare del tempo lo stile decorativo delle porcellane cambiò, allontanandosi sempre più dal modello orientale per sfociare nel barocco. Böttger arrivò alla scoperta della porcellana mentre cercava tutt’altro: un altro caso di serendipità e di continui tentativi che portano a risultati inaspettati, ma ugualmente importanti. L’alchimista tedesco, come tutti i suoi colleghi di allora, dei secoli passati e di quelli a venire, stava cercando la pietra filosofale. Si tratta di una sostanza alchemica leggendaria che non ha influenzato solo gli alchimisti, ma anche alcuni grandi pensatori della storia. La pietra filosofale rappresenta un dualismo tra spirito e materia e secondo molti rappresentava un elisir di lunga vita, era in grado di conferire onniscienza e trasformare in oro il metallo. Per qualcuno era una sostanza materiale, per altri solo spirituale. Il suo elemento più prezioso era quella che si chiama la quintessenza, l’ingrediente che Böttger stava cercando prima di imbattersi nella formula della porcellana dura. Della pietra filosofale hanno parlato in molti e in molti modi: lo psicanalista Carl Gustav Jung la associava alla teoria dell’inconscio e credeva che si trattasse di una metafora dello sviluppo psichico dell’essere umano, mentre oggi molti lettori e amanti del cinema la conoscono per “Harry Potter e la Pietra Filosofale”. Altri sapranno, invece, che la ricetta della pietra filosofale include mercurio, zolfo e l’utilizzo di 6 puffi bolliti nel veleno di serpente. Provate a chiedere a un altro celebre alchimista come Gargamella.
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