Giudicare il cibo dall’etichetta
Il giudizio deve guardare a tutt’altro, ai valori nutrizionali, gli ingredienti e la loro provenienza. La richiesta della massima trasparenza avanzata dai consumatori, negli ultimi anni, si è fatta sempre più insistente e un miglioramento della legislazione in tal senso è ovviamente d’aiuto. È necessario far sì che il consumatore sia sempre in grado di scegliere e che sia informato sul contenuto di ciò che acquista. Il regolamento UE 1169/2011, forse migliorabile ma più restrittivo rispetto a quello di altri Paesi, prevede un elenco che include denominazione, conservazione e scadenza, gli ingredienti e la loro provenienza. Sugli ultimi due punti si apre un altro mondo, un argomento molto discusso. Nonostante la richiesta, da parte del regolamento UE, del rispetto della veridicità delle informazioni, non capita di rado che questo passaggio venga raggirato. L’UE, tra le altre cose, ha stabilito un ordine ben preciso, il criterio di etichettatura segue l’ordine della quantità/abbondanza degli ingredienti contenuti nel prodotto. Ma da dov’è nata l’esigenza di creare etichette per descrivere bevande e alimenti?
Dal passepartout alla lotta contro l’obesità
Prendere appunti sulla tipologia di prodotto, il suo consumo e la sua durata, è sempre stato necessario. Pare che già gli antichi egizi facessero qualcosa di simile. L’utilizzo delle anfore rendeva l’etichettatura indispensabile, poiché non si poteva vedere al loro interno, nè riconoscere a colpo d’occhio la provenienza di un prodotto. Anche gli antichi greci facevano la stessa cosa per ricordare la provenienza dei vini. Questi ultimi, infatti, insieme ai liquori, sono stati tra i primi prodotti ad avere un’etichetta. Sono, inoltre, la tipologia che permette di spaziare di più dal punto di vista grafico. La prima etichetta del vino a noi nota è quella creata dal monaco francese Pierre Perignon (al quale viene spesso attribuita l’invenzione dello champagne). Il monaco benedettino si era semplicemente limitato a scrivere su una pergamena, per poi attaccarla alla bottiglia con una cordicella. C’è poi stato il periodo della stampa cromolitografica dei cosiddetti passepartout dei liquori. Allora erano uguali per tutti, le aggiunte venivano effettuate dalle stamperie locali, che provvedevano a personalizzare ogni etichetta in base alle esigenze dei produttori. Tra quelle degne di nota ci sono sicuramente le etichette realizzate nel periodo della Belle Époque, alle quali si rifanno spesso molte etichette moderne. Già allora la bellezza delle etichette le rendeva dei perfetti oggetti da collezione. Nonostante oggi la maggior parte di esse non sfoggi la stessa eleganza dell’epoca, i collezionisti non mancano, in particolare se di mezzo ci sono vino e cibo. Che siano belle oppure no, quando avete a che fare con le etichette, la prima cosa di cui preoccuparsi è il loro contenuto. Il regolamento UE riporta in maniera dettagliata anche le dimensioni minime dei caratteri che si possono utilizzare, per far sì che sia garantita la massima leggibilità e, di conseguenza, trasparenza da parte dei produttori. Un’etichetta può dire molte cose e in pochi simboli racchiudere numerose informazioni, racchiudere in sé la storia di un prodotto, dell’azienda che lo produce e la sua filosofia.
Il merito della diffusione di massa delle etichette – quella in via definitiva, per intenderci – è da attribuire a R. Stanton Avery, negli anni ’30. Fu lui ad inventare la prima etichetta autoadesiva. Fino ad allora la colla veniva applicata a mano, perché consumare ancora tanta energia quando si poteva semplificare il processo? L’idea di Stanton Avery fu un vero e proprio boom. L’utilizzo di questi piccoli foglietti, che sono stati anche pezzi di legno, di cera o i materiali più svariati, è stato fondamentale in molti casi, in particolare in ambito farmaceutico. Non solo per l’elenco dei componenti di un farmaco, ma anche per le modalità di consumo. Le indicazioni si possono trovare tutt’ora anche su quelle dei cibi: conservare in luogo fresco e asciutto, consumare entro il …, e così via. Come dicevamo all’inizio, però, molto spesso l’impatto estetico influenza ancor più del contenuto concreto dell’etichetta. La nostra mente è allenata alla categorizzazione. Senza cadere in digressioni di stampo psicologico o sociologico come la label theory legata al concetto di devianza, è innegabile che etichettiamo tutto ciò che vediamo. Che si tratti di un oggetto, di una persona, un luogo o di un animale, la nostra mente è abituata ad apportare delle etichette, talvolta impregnate di pregiudizi, talvolta valide, altre volte ancora in grado di velocizzare i processi di riconoscimento e di associazione. Che siano reali, come quelle applicate su una bottiglia di birra, o metaforiche, le etichette ci aiutano a destreggiarci nel quotidiano, guidano e motivano le nostre scelte. Fidarsi o non fidarsi, questo è il dilemma. Qui entra in gioco un fattore fondamentale, quello dell’informazione. Mai sottovalutare l’importanza di ciò che un’etichetta ci dice. Sono stati condotti diversi studi nel tentativo di capire se un corretto utilizzo dell’etichettatura e della trasmissione di informazioni sui cibi possa aiutare a seguire un’alimentazione più sana. Si tratta di un problema importante in particolare negli USA, dove da tempo va avanti la lotta all’obesità e altre malattie croniche derivanti da una cattiva alimentazione. Generando maggiore consapevolezza, il problema si può arginare. La creazione di etichette di immediata comprensione, magari tramite l’utilizzo dei colori per trasmettere le informazioni con più rapidità ed efficacia, può sicuramente essere d’aiuto. Un consumatore informato sul contenuto di un prodotto – e sulle conseguenze che può avere sulla sua salute – potrà compiere una scelta diversa rispetto alla sua idea iniziale, e che sarà orientata maggiormente verso il suo benessere.
Foto di Federica Di Giovanni
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