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Siamo tutti un po’ hipster

Postato il 8 May 2018 da Elide Messineo
Siamo tutti un po' hipster
Hipster è quello che ti dice di non andare a seguire il solito itinerario se vai a visitare Manhattan, piuttosto vai a Brooklyn. A forza di dispensare questi consigli, Brooklyn è rinato e Williamsbourg è il quartiere più hipster del mondo.

Ma cos’è davvero un hipster? Dalle parti di DUMBO, a New York, non si fa fatica a trovarne uno: le lunghe barbe che sembravano sull’orlo dell’estinzione a fine 2017 continuano a resistere, sono ancora tra noi, tra negozi pop-up e unicorni. Attenzione, non vogliono essere confusi con i radical chic, nonostante i numerosi elementi in comune. Sono alternativi che però sono molto spesso “figli di papà”, Wikipedia dice che si possono incontrare in quelli che vengono definiti quartieri “emergenti” e che, nella maggior parte dei casi, sono aree metropolitane lungamente trascurate. Come, appunto, Williamsbourg. In Italia la città hipster per eccellenza è Bologna, i quartieri più celebri in tal senso sono il Pigneto di Roma, San Frediano a Firenze, Isola e Navigli a Milano.



L’evoluzione del termine e di uno stile di vita

Negli anni ’40 gli hipster erano gli appassionati di jazz e bebop, bianchi della classe media che volevano emulare lo stile di vita dei neri e ribellarsi alle convenzioni sociali. In letteratura sono stati ampiamente descritti, ne parlava Jack Kerouac ma una delle descrizioni più famose è quella di Norman Mailer in “The white negro” del 1967, che li definisce “esistenzialisti” alla ricerca del “divorzio dalla società”. Oltre il beat: sono i nuovi Bohémiens che tentano di divincolarsi dalle etichette intrappolandosi dentro jeans stretti e scuri, nascondendosi dietro occhialoni che farebbero impallidire pure Allen Ginsberg. Hipster è, in sintesi, non convenzionale, come lo era il jazz negli anni ’40. Oggi è vintage, odore di polvere e parole rinforzate da valori eco, bio e friendly, tatuaggi, piercing, baffo curato per lui, abiti di due taglie più grandi per lei. Gli hipster di oggi sono lontani dai principi marxisti che li contraddistinguevano un tempo. Sotto le scelte alternative dell’anticapitalismo sbandierato allora non è rimasto granché, i veri hipster vestono (o vestivano) American Apparel. “Mainstream” è un termine che pronunciano con malcelato disgusto, sebbene si siano trasformati nella categoria più mainstream di tutte.

Quartieri e città si sono adattati e si sono plasmati sulla scia delle nuove tendenze (ed esigenze), i locali servono centrifugati nei barattoli da conserva, diventa tutto più green, lo street food è diventato gourmet, il barman si è evoluto in mixologist, tutto ciò che non era cool ora lo è. Le camicie da lumberjack, già prese in prestito dal grunge, sono tornate in auge insieme ai colori pastello: un mondo a prova di Wes Anderson. Tisane, biciclette e unicorni, macchine fotografiche analogiche, poi strani incroci di cibo: spaghetti donuts, dausage (salsiccia ripiena di marmellata di fragole), cronuts (croissant + donuts), sushirrito (sushi + burrito), cupcake arcobaleno e black ice cream, kimchi, tutte le tendenze si nascondono tra gli account di Instagram, sulle liste di Buzzfeed, dentro gli speakeasy risorti. Si apprezzano oggetti inusuali per servire il cibo, le tazzone di rame per il Moscow Mule, avocado avocado avocado, birre artigianali e cultori del cold brew coffee, aloe, la stevia sorpassa senza pietà lo zucchero di canna, fermenta il kombucha, sfrigola il bacon, piacciono gli orti casalinghi, mashup e sperimentazioni come la frutta sulla pizza (o dove non la metteresti mai), tacos, burritos e qualsiasi cosa abbia del carbone vegetale, è il trionfo dell’instagrammabile, del food porn. I cocktail hanno colori chiari e sapori delicati, il superfood è particolarmente gradito, purché tutto sia bello da vedere e rivisitato con ingredienti nuovi. Vecchie fabbriche e macellerie diventano nuovi luoghi di ritrovo e di scambio, tra musica e arte; più l’aspetto è fatiscente, più il posto sarà apprezzato. Anticonformisti conformati all’interno di quella che prima era una sottocultura ed ora è diventata la culla di tutto ciò che nel giro di poco tempo sarà considerato un trend. Un nuovo nome da assegnare a quello che prima era considerato l’intellettuale alternativo, amante dei vernissage e del finger food. Il nerd finalmente mette il naso fuori di casa, ha trovato la sua rivincita senza dover cambiare modello di occhiali, senza doversi togliere la camicia a quadri o la maglietta con i supereroi stampati sopra. Il mantra è: distinguersi per farsi notare. Lo state of mind è solo apparente, ma ha una sua funzionalità.

Volendo sfuggire ad ogni tipo di etichetta, gli hipster ne hanno creata una, diventata un vero e proprio calderone di elementi presi in prestito da altre culture e sottoculture. Al di là delle facili ironie, tuttavia hanno il merito – volontario o meno – di aver contribuito alla riqualificazione di numerosi luoghi, di aver diffuso nuove conoscenze, riportando in vita un artigianato sempre più moribondo. La selezione degli oggetti, la passione per l’estetica e la ricercatezza degli ingredienti che rispettino determinati criteri, molto spesso vengono considerati pura spocchia e frutto di un narcisismo imperante. Se tutto questo viene tradotto in esigenza consapevole oltre che in semplice moda, diventa solo una spinta a volere sapere di più e a richiedere un livello qualitativo più alto (purché lo sia concretamente), un meccanismo volto a migliorare l’ambiente circostante, con le conseguenze che ne derivano. Dopotutto, c’è un piccolo hipster in ognuno di noi.

Foto di Federica Di Giovanni

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