L’intraducibile bellezza dell’essere
Nessun altro essere vivente ha sviluppato un linguaggio complesso come quello degli esseri umani, elemento importante per ogni comunità. Esistono diversi approcci allo studio del linguaggio e tutti devono inevitabilmente fare riferimento alla storia dell’uomo, tornando indietro nel tempo fino al Paleolitico. Questo complesso insieme di codici che si è costruito nel corso dei secoli è fondamentale per poter comunicare, in maniera più o meno elaborata. Sebbene ci siano diverse teorie a riguardo, non si può fare a meno di notare come il linguaggio sia condizionato anche dal retaggio culturale, motivo per cui potrebbe capitare di trovare delle parole che esistono solo in una lingua e che sono intraducibili in tutte le altre. Parole che però, allo stesso tempo, definiscono stati d’animo che non sapremmo come descrivere altrimenti.
Lost in translation
Molto spesso non si dà troppa importanza a quello che diciamo e al modo in cui lo facciamo ma, come insegna Nanni Moretti, “le parole sono importanti”. Assaporare le emozioni e dare un nome ai sentimenti, tuttavia, non è cosa facile e non sempre esistono delle parole esatte, quelle che sappiano cogliere le precise sfumature di quello che proviamo. Forse non ne esistono nella tua lingua ma di sicuro qualcuno ci avrà pensato per te. Come i portoghesi, che hanno creato un termine apposito per definire un particolare tipo di nostalgia, la saudade. È una sensazione che si porta dietro tante cose, tante storie e che ha influenzato notevolmente anche la musica brasiliana. Che poi mica è solo una, la nostalgia: tendiamo a collegarla al passato, a quello che è successo e che non tornerà più, ci riporta a un luogo a cui siamo particolarmente legati, è la madeleine proustiana. Può esserci la nostalgia per un tempo che non si è mai vissuto e perfino per un posto in cui non si è mai stati. Magari provi una fortissima sensazione di saudade quando senti parlare di Montmartre e non sei mai stato a Parigi, sogni di provare l’ebbrezza di ammirare Machu Picchu, di assistere alla vista dell’aurora boreale o di svegliarti in tempo per un’alba africana mozzafiato. Si chiama Fernweh: ci hanno pensato i tedeschi a trovare la parola giusta, loro che ne trovano sempre una per tutte le cose. Fernweh potrebbe essere il “sintomo” che precede la tua Wanderlust, che è quell’irresistibile voglia di viaggiare senza fermarsi mai e che a sua volta è spesso e volentieri la cura per chi soffre di Weltschmerz. Il “dolore cosmico”, il “mal di mondo” si guarisce in un solo modo: tuffandocisi a capofitto, in quel mondo, assaporando ogni singola scoperta. Nel momento in cui questo avviene, potresti avvertire una strana sensazione, qualcosa che ti tiene in bilico tra una piacevole felicità e un’incomprensibile tristezza. È la tua natura umana, quella che ti ha dato il linguaggio ma che ti tiene sempre diviso a metà, che non sai mai da che parte andare, soprattutto se di mezzo ci sono il mondo e uno scontro frontale con la bellezza, quella che ti spiazza e non sai bene come reagire. La consapevolezza del tuo essere effimero è una vocina nella tua testa che ti dice che quel momento finirà e, se fossi in giro per il Giappone e stessi tentando di esprimere questa sensazione (soprattutto alla fine di un pasto a base di sushi), ti darebbero una diagnosi senza esitare un secondo: si tratta di aware.
Wanderlust è un cancello che si apre su un futuro pieno di sorprese, quelle che i francesi chiamerebbero trouvailles. Scoperte che molto spesso non sono solo di tipo materiale: non sono solo le chicche che hai trovato in quel mercatino delle pulci una domenica a Berlino, sarà il tuo nuovo modo di essere, che ti è venuto incontro durante il viaggio zaino in spalla che hai fatto in India in solitaria. Quanto tempo durerà tutto questo quando tornerai alla normalità? Meglio non porsi troppe domande sul futuro, anche di quello potrebbe venirti nostalgia. A volte, poi, scopri che non c’era nemmeno da andare così lontano per trovare il tuo nuovo modo di essere, ma che avevi bisogno di tutti quei chilometri e quelle nuove sensazioni provate. Pezzi di quello che eri sono andati persi nel mondo e, mentre tornavi indietro, alcuni sono andati persi nella traduzione. Sei diventato una parola nuova, che non tutti sanno pronunciare ma che si porta dentro un significato ben preciso. Una parola bella, come komorebi, che per i giapponesi è quell’effetto particolare che si crea quando la luce del sole filtra tra le foglie degli alberi – lo stesso che c’era quella mattina, quando le parole ti hanno indicato la strada e ti hanno detto, finalmente, chi sei.
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