Caffè e benzedrina
Nella maggior parte dei casi – specialmente quando si parla di poesia – il cibo ha valore simbolico e non rappresenta quasi mai il suo significato letterale. Molto spesso è un elemento vitale che viene associato alla capacità di godere o meno del prezioso dono della vita. Come nel caso di Giovanni Pascoli nella raccolta di poesie “Myricae”, in cui paragona la vita a un banchetto. In molti altri casi il cibo rappresenta dei ricordi d’infanzia, rimanda alla genuinità della gioventù.
Il cibo, ovviamente, appare in moltissime opere e in tutte le epoche, dalla Genesi della Bibbia all’Odissea di Omero. In altri casi il cibo viene raccontato per descrivere uno status sociale, come nella poesia “Le golose” di Guido Gozzano. Da contrapporre, per esempio, a “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, lì il cibo povero della tradizione contadina è quello che compare più spesso. Pane che scarseggia e tanta polenta, cavolo e poche altre verdure, in netto contrasto con le pietanze squisite de “Il Gattopardo“, associate anche alla sensualità. Se in “Palomar” Calvino si perdeva nel mondo dei formaggi, Camilleri ama elogiare il cibo della sua terra, la Sicilia, attraverso i piatti di Adelina. Per non parlare, poi, del ruolo che il cibo gioca nei gialli: molto spesso potrebbe rivelarsi fatale, alla pari della mela avvelenata di Biancaneve, ormai leggendaria.
Cibo d’autore
Non solo raccontato, ma apprezzato anche nella vita reale, il cibo ha influito sulle carriere di autori che in molti casi hanno dispensato anche le loro ricette preferite. È risputo che Proust fosse un grande estimatore di caffè e le madeleines che descrive in “Alla ricerca del tempo perduto” sono tra i comfort food più conosciuti della storia della letteratura. Molti scrittori e scrittrici sono stati appassionati di cucina e gastronomia e per questo a loro sono stati dedicati perfino dei piatti. Come il risotto “alla Pascoli”, un tripudio di omaggi all’Emilia-Romagna; gli spaghetti “alla Ungaretti”, semplici come una poesia ermetica, o la lepre “alla d’Annunzio”, ridondante e leggera come un banchetto rinascimentale. Di Kafka si dice che amasse bere molto latte mentre Truman Capote, autore di “Colazione da Tiffany”, alternava le sue sessioni di scrittura tra caffè, té alla menta e lo sherry alle 2 del pomeriggio. Emily Dickinson amava preparare il pane in casa come piace anche a Stephen King, mentre Walt Whitman aveva gusti più bizzarri, si concedeva ostriche e carne a colazione. Tuttavia, quasi tutti gli autori più celebri avevano preferenze molto semplici in fatto di cibo, come John Steinbeck che mangiava un toast freddo accompagnato da un caffè. Quest’ultimo, grande compagno nelle notti insonni per portare a termine il lavoro. Ma ancor più che per il caffè, moltissimi scrittori sono celebri per la loro passione per l’alcol e le droghe, gradite fonti d’ispirazione. I poeti maledetti sono i più celebri amanti dell’assenzio ma lo era anche il dandy Oscar Wilde. L’autore de “Il ritratto di Dorian Gray” sosteneva che esistono tre stadi del bere: il primo è quello ordinario, il secondo è quello in cui si vedono delle cose mostruose e il terzo – se si è abbastanza resistenti da raggiungerlo – è quello in cui finalmente si svelano le meraviglie. Molti autori bevevano ancor prima di fare colazione, altri seguivano ritmi serrati per produrre le loro opere, contemplando delle pause ben specifiche. Hunter S. Thompson, autore di “Paura e disgusto a Las Vegas”, si svegliava alle tre del pomeriggio e non potevano mancare i giornali del mattino, rigorosamente accompagnati da Chivas Regal, sigarette Dunhill, cocaina e succo d’arancia, poi ancora caffè, cheeseburger, gelato, anelli di cipolla fritti, carrot cake. Tutto alternato con varie strisce di cocaina, fino a mezzanotte, quando finalmente iniziava a scrivere. Alcol e sigarette continuavano ad accompagnarlo durante il lavoro, insieme a un piatto di fettuccine Alfredo per riempire lo stomaco, quasi all’alba.
Altri autori hanno fatto uso di droghe per motivi diversi: c’era sì chi beveva e cercava la Fée Verte per finire in mondi fantastici e chi invece si ritrovava con una dipendenza da oppiacei dopo averli usati abbondantemente per combattere il dolore. L’utilizzo dell’oppio come antidolorifico era molto diffuso nell’Ottocento, basti pensare che nel suo ultimo romanzo, “Villette”, Charlotte Brontë descrisse gli effetti dell’oppio in maniera dettagliatissima, pur senza averne mai fatto uso. Per poter scrivere senza avvertire troppo dolore, Robert L. Stevenson fece un uso ininterrotto di cocaina per sei giorni, così venne fuori “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”. Altri suoi colleghi, invece, per accelerare il lavoro apprezzavano gli effetti della benzedrina. Su tutti, Jack Kerouac, che proprio sotto effetto di benzedrina scrisse la sua opera più celebre, “Sulla strada”. L’autore beat fu anche un assiduo frequentatore di diner, amante di mac & cheese e crackers Ritz con burro di arachidi per accompagnare le sue sessioni di scrittura. Come Charles Bukowski e Dorothy Parker, Dylan Thomas apprezzava moltissimo gli effetti del whiskey, al punto che circolò a lungo una voce in particolare sulla sua morte: sarebbe stata causata da 18 shot consecutivi. Perché, come accade spesso di fronte a personaggi di questa portata, realtà e fantasia si mescolano e a quel punto poco importa se quel che viene tramandato sia vero o meno, sono già diventati leggenda.
Foto di Federica Di Giovanni
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